Ebrei a Roma

1024

Tripoli, quartiere ebraico Hara el Kebira

Parlando la settimana scorsa del mitico 1967, credo di voler approfondire il discorso sull’ebraismo a Roma. Gli ebrei, probabilmente, erano lì residenti fin dall’inizio dell’impero romano. Ad Ostia Antica splendide rovine di sinagoghe appartenenti a quel periodo fanno intuire l’importanza di quella comunità.
Durante gli anni del potere temporale, spesso beffeggiati, angariati, privi di diritti come quello di proprietà immobiliari, fino al terribile decreto di papa Paolo IV Carafa, che riteneva: “CUM NIMIS ABSURDUM”, oltremodo assurdo il loro convivere con i gentili, rinchiudendoli nel ghetto. Ma questa misura punitiva, lungi da aver fiaccato la comunità, l’unì ancor di più. Chiusi in territorio molto limitato (presso a poco l’area intorno all’attuale Tempio Maggiore), potevano uscire la mattina per lavoro e rientrare la sera, passando da porte ben sorvegliate. Per uscire avevano bisogno di permessi speciali firmati addirittura dal segretario di stato. Tra le altre vicende nacque una nuova lingua, formata da parole ebraiche e dialetto romano strettissimo. Il poeta Crescenzo Del Monte ne da un esempio narrando spicchi di vita ebraica (fidanzamenti, detti parentadi, matrimoni, nascite, circoncisioni, minian) unici e non presenti in nessuna altra lingua. Anche l’ebraico è adattato al dialetto romanesco, non solo nella scrittura, ma anche nella cadenza. Faccio un esempio di un inizio di una poesia di Del Monte: “Me venissero tanti BERACHODDI (benedizioni), e a essi tanti boni COLAHIMMI (malanni) pe’ quanti so li sacchi de mangoddi (soldi) che hanno arrobbato questi HANNAVIMMI (ladri)“. Mia nonna Noemi (lo sapete) è nata nella via Condotti del ghetto, via Rua, soggetta a tutte le inondazioni del Tevere. Furono liberati con la presa di Roma (1870), almeno in teoria, nei primi anni. Ma dove sarebbero potuti andare? Dopo non molti anni le continue mazzate, prima con le infami leggi razziali, poi in piena guerra la terribile occupazione nazista, culminata con la razzia del 16/10/43 (anniversario imminente). L’ultimo colpo fu la conversione al cattolicesimo di un rabbino capo, quattro mesi dopo la liberazione di Roma. La parola d’ordine, non scritta ma rispettata, fu “dimenticare”: le persecuzioni, gli orrori, e cercare una vita normale. L’essere ebrei rimase nelle famiglie in maniera profonda, ma le strette regole furono un poco messe da parte. Andavamo al Tempio nelle feste comandate, ma pochi tra noi sapevano pregare o leggere l’ebraico. Poi, appunto, il ’67. Non molti tra noi capirono l’importanza dell’arrivo della comunità di Tripoli, espulsa dai capi locali. Arrivarono spesso con pochi soldi, ma con una enorme fiducia nelle loro capacità imprenditoriali, e fecero rifiorire il commercio romano, un poco stanco dopo il boom dell’immediato dopoguerra. Ma il fatto religioso più importante fu il loro rigido rispetto dei principi e dei riti della nostra religione. Anche questo pochi di noi lo compresero. Come dicevo, fiaccati da tanti colpi, molte regole non le avevamo apprese. La convivenza con i tripolini non fu sempre facile: noi romani non comprendevamo il loro esser tanto rigidi, e loro il nostro insufficiente (a loro detta) scarso rispetto nel seguire preghiere e regole. Solo negli ultimi anni, credo, i miei amici del Tempio dei Parioli hanno insegnato, rendendo quasi allegra e comprensibile, ogni funzione e, riunendo romani e tripolini con tanto affetto, ci hanno reso tutti vicini, senza incomprensioni o steccati. Grazie a loro abbiamo imparato a comprendere ed apprezzare la loro religiosità, e loro, forse, hanno fatto loro la nostra storia di ebrei romani, le nostre tradizioni a partire dai cibi. Fin dal 1492 Roma fu il punto di approdo di ebrei in fuga dalla Spagna e dai pogrom (persecuzioni) dell’Europa centrale (Germania, Polonia, Slovacchia, Russia) – cosa avremo poi fatto di male?
Dopo tanti anni, finalmente a Roma tutti fratelli, uniti dalla nostra religione!

Grazie, per avete riunito tutti noi, un vero prodigio dopo cinquanta anni!

5 pensieri su “Ebrei a Roma

  1. Le tradizioni sono una delle cose più importanti, uniscono le persone . L’umanità ha bisogno di essere variegata perché le differenze climatiche e geografiche ovviamente fanno sviluppare modi diversi di sopravvivenza. In un mondo ideale tutti noi dovremmo incontrarci per scambiare le varie opinioni e aiutarci a risolvere i problemi a vicenda. Dove uno ha trovato una soluzione ,l’altro può beneficiarne e viceversa dove uno affronta degli interrogativi l’altro può venire a conoscenza di problemi che potrebbero divenir anche suoi nel futuro . I riti poi sono importanti perché danno continuità alla storia, se no saremmo solo meteore impazzite. Sono contenta dell’arrivo dei Tripolini che hanno permesso di riprendere contatto con le radici , forse difficile lo capisco ma dimenticare non giova a nessuno se non ai prepotenti e agli ingiusti che così avranno ottenuto il loro scopo. Grazie Fabio di tutti questi bei spunti di riflessione che ci offri, è un piacere seguirti.
    Laura

    "Mi piace"

Lascia un commento