Velletri prima di Bordimaia e Roma nel primo dopoguerra

Con la licenza dei soliti venticinque lettori, voglio andare un poco più in là nel tempo. Come ho raccontato la vigna è nata con me, ricordo uno scalcinato “tranvetto” che costeggiava l’Appia, lo stesso che nei racconti paterni il ventotto settembre 1943 portò la mia famiglia, tremante e disperata, in fuga a Velletri. Ma nel primo, primissimo dopoguerra, il “tranvetto Stefer” giungeva alla piazza del paese e per arrivare alla vigna occorrevano due o tre chilometri di gambe in spalla. Fino a pochi anni prima mio padre vi arrivava pedalando su un’antiquata bicicletta, superando la salita delle Frattocchie, non proprio lo Stelvio, ma niente male. Come ho già raccontato, si dormiva in una unica stanzetta (la casa riportata nel blog) e per bagni e servizi … l’aria aperta. Si mangiava e si cucinava con i manutentori, allora il padre di Vivaldo. La casa (chiamiamola pure così) padronale fu costruita nel 1947/48 e sui suoi inconvenienti mi sono gia dilungato (acqua solo se pioveva, luce con lampade a petrolio e candele…), ma ci sembrò il Louvre.

Concedetemi una piccola digressione dal tema (sono pur sempre il “Madesdic” altrimenti detto “mito”, non dimenticatelo), perché mi voglio soffermare su sparsi ricordi dell’immediato dopoguerra.
Abitavamo a via Sabotino all’ultimo piano, interno 35. Mio padre, rappresentante di tessuti, aveva fatto montare sulla bicicletta un portapacchi e andava ad acquistare dai negozianti che possedevano qualcosa del periodo anteguerra per rivenderla a chi nulla aveva. Così sbarcava, bene, il lunario, almeno fino a quando riaprirono le fabbriche del nord. Finito il faticoso giro, doveva portare la bicicletta per otto piani, fino a casa.
Molti dei miei amici, diversamente giovani, ricordano i mezzi di trasporto di allora a Roma: le “camionette”, le ricordate? Un piccolo autocarro, con un omone che urlava ad esempio: “Termini Flaminio!” e tirava fuori una tremolante scaletta per far salire i passeggeri.
E il carretto dei gelati? A pedali, che farebbe inorridire le mamme di oggi per la dubbia igiene.
Mia moglie mi ricorda il venditore di ghiaccio, che urlava “ghiaccio, signore! Una colonna, una mezza colonna?” Lo tirava su col gancio in sacchi di iuta, e i bambini ne grattavano sempre un pò facendo ottime “grattachecche”. Il ghiaccio alimentava le ghiacciaie, vero lusso, chi non l’aveva, ed erano i più, metteva il burro sotto un filo d’acqua, e il conservabile sul davanzale della finestra.
I costumi da bagno erano di lana, pesantissimi, una vera tortura. Al mare il primo giorno ci toccava una bella (?) purga, non si doveva bere quando si era sudati, se avevi mangiato anche una briciola, mai il bagno prima di tre ore.
Il pennino e calamaio che macchiavano dappertutto se usati male, se invece scrivevi a macchina gli sbagli si cancellavano con gomma dura, se poi c’era carta carbone e velina facevi comunque un pasticcio.
Le merende? I nutrizionisti contacalorie urlerebbero davanti a pane burro e zucchero, ai venditori di bomboloni sulle spiagge, ai venditori di fusaie (lupini) fuori dalle scuole, oggi le ASL darebbero il carcere a vita.
La prima auto fu una topolino ansimante, era dall’anteguerra che le auto private erano vietate, ma la prima volta che raggiungemmo la vigna in auto sembrava di stare in paradiso.
Le signore andavano in tailleur, anche al mercato, e con l’uccello del paradiso sul cappellino.
Uno dei miei primi ricordi, oltre alla partenza di nonna Noemi per il Brasile, è di papà reduce dalle votazioni sul referendum Repubblica o Monarchia del due giugno.
Gli ascensori erano a gettone prima, a moneta poi. Per andare da Ettore che abitava all’ultimo piano usavamo una moneta da cinque lire bucata con uno spago che recuperavamo velocemente.
Era una gran vita … il mondo era da ricostruire! E poi arrivò il Mameli e i miei amici.

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